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LICEO di LUGO

Liceo Scientifico St. G. Ricci Curbastro con sez. annessa di Liceo Classico Trisi-Graziani

La conferenza tenutasi a Venezia dal 22 al 24 settembre 2016 ha avuto come argomento principale la rivoluzione digitale e i cambiamenti che sta portando nella nostra vita. Tra i relatori, sia italiani che stranieri, possiamo ricordare Alessandro Curioni, vicepresidente della sezione ricerca europea dell’IBM, Carlo Ratti, responsabile del MIT Senseable City Lab e Paul Kersey, professore dell’università di Cambridge.

Con rivoluzione digitale si intende l’ampia diffusione degli strumenti digitali e dei cambiamenti che stanno portando alle nostre vite, sia nel modo in cui è organizzata la nostra società sia nel modo in cui facciamo scienza: un tempo si teorizzava e basta, poi si passò a svolgere esperimenti per confermare queste teorie. Oggi questi esperimenti vengono simulati al computer e già questa è una rivoluzione, ma in un futuro prossimo si arriverà a discutere le proprie teorie con i computer stessi che ci aiuteranno a perfezionarle e provarle.

Al centro di questa rivoluzione ci sono i Big Data, ovvero le enormi quantità di dati che vengono generate ogni giorno. Una delle definizioni dei Big Data è “una quantità di dati che non può essere contenuta in un foglio Excel”. Questi dati sono davvero tantissimi, il 90% è stato prodotto negli ultimi due anni e ogni giorno ognuno di noi ne produce 2Mb. In realtà l’80% di questi dati sono dark data, ovvero dati non strutturati e non utilizzabili perché non organizzati in modo comprensibile. Sono proprio questi unstructured data che sono in crescita: si prevede che nel 2020 saranno il 93% dei dati totali. I Big Data esistono da tempo e la vera rivoluzione non sono i dati in sé, ma il modo in cui vengono analizzati.

I Big Data si possono distinguere in base alla loro origine o in base alle loro caratteristiche. Classificati in base alla loro origine sono distinti in porpusely sensed data, ovvero generati per la ricerca, user generated data, ovvero generati dall’uso quotidiano di telfoni e computer,e in opportunistic data, ovvero generati a un certo scopo ma poi usati anche per altri. Un esempio sono i dati raccolti dalla polizia sul numero di furti a Leicester, che poi sono stati usati dalle compagnie di assicurazioni e dalle agenzie immobiliari per valutare i prezzi delle case. I dati invece classificati in base alle loro caratteristiche sono divisi in available data, ovvero i dati leggibili, opposti ai dark data, che a loro si dividono in accessible data, a cui si può avere accesso, e free data, ovvero i dati gratis. I dati che sono sia accessibili che gratis sono gli open data.

 

Come ho detto prima, la vera rivoluzione è l’analisi dei Big Data, quindi gli algoritmi che servono per analizzarli. Un esempio di questi algoritmi rivoluzionari è Watson, creato dall’IBM, che è in grado di comprendere perfettamente il linguaggio umano, quasi, anzi, meglio degli umani. In una sfida da quiz televisivo sul trovare una parola data la definizione, spesso espressa in modo molto complesso, si è rivelato più bravo degli sfidanti umani. Siamo però giunti a un punto in cui l’attuale architettura dei computer, l’architettura di Von Neumann, non basta più per supportare questi algoritmi. Si stanno quindi studiando nuovi computer, in particolare i computer quantistici, in cui un bit può assumere il valore 1, il valore 0 o entrambi, e i computer neuromorfici, basati sul cervello umano. L’IBM è riuscita a creare con un successo un neurone artificiale. Però non è importante solo con che mezzi li analizziamo, ma anche come. Si possono infatti commettere errori nel leggere le informazioni ricavate dai dati: da una ricerca statistica, ad esempio, è risultato che i paesi con il maggior consumo di cioccolata per abitante erano anche i paesi da dove provenivano più premi Nobel, però non c’è nessuna dipendenza tra i due dati. Un altro esempio di un errore di analisi dei dati è stato commesso esaminando i tweet per una ricerca statistica sull’educazione della popolazione. Si ricercavano i tweet con l’hashtag “Schooling”, che però è il cognome del vincitore di una medaglia d’oro alle Olimpiadi di Rio. I post su di lui hanno quindi inquinato la ricerca. L’uso efficace di questi dati può migliorare la nostra vita.

I Big Data trovano applicazioni in molti ambiti della vita: in campo medico, per studiare al meglio il genoma e trovare cure più efficaci, nel campo della sicurezza, per studiare nuovi dispositivi, in campo sociale sociale, per migliorare la trasparenza dei governi e la partecipazione dei cittadini, e anche in campo energetico e ambientale.

In questo ambito possiamo parlare di Smart water, smart traffic e smart trash. Il 40% dell’acqua viene persa durante la distribuzione e per evitare questo spreco si potrebbero creare dei robottini, da inserire nelle tubature, perché trovino e riparino le falle. Potrebbero anche essere usati nelle tubature di petrolio. Per quanto riguarda il traffico, invece, si è studiato che a New York si potrebbero utilizzare il 40% dei taxi in meno se il loro uso fosse ottimizzato come è stato studiato grazie ai dati raccolti.

Un altro miglioramento nel campo del traffico urbano lo potrebbero dare le self driving car. Uno studio condotto sempre a New York ha rivelato che se tutte le auto fossero self driving ne servirebbero il 20% e il traffico sarebbe molto più scorrevole, con un impatto positivo sull’inquinamento. Servirebbero inoltre meno parcheggi.

Parlando invece di rifiuti, si potrebbe organizzare meglio la raccolta, inserendo sensori nei cestini che avvisino quando questi sono pieni e si potrebbero usare dei sensori inseriti nei rifiuti stessi per verificare che questi vengano smaltiti accuratamente e in modo sicuro.

Finora ho parlato delle tecnologie che la rivoluzione digitale ha e può portare, ma questa rivoluzione ha portato molti cambiamenti anche nella nostra società e nella nostra economia. Un esempio può essere la sharing economy, un’economia basata sulla fiducia e sulla condivisione. Un esempio di servizi di sharing economy possono essere BlaBlaCar o Uber, che aiutano i propri utenti a organizzarsi per condividere la propria auto e quindi risparmiare soldi ed energia. Queste iniziative però spesso non sono regolamentate perché nuove: le leggi ci mettono sempre del tempo a mettersi al passo con l’innovazione. Inoltre l’uomo tende sempre a cercare un modo di aggirare le leggi, ad esempio, sono tassate solo le case terminate, quindi con un tetto: basta lasciare la propria casa senza tetto e non bisogna pagare le tasse. Questo è un aspetto in cui la fiducia su cui si basa la sharing economy potrebbe aiutare.

La rivoluzione digitale influirà anche sulla politica: Patrizia Nanz e Ariane Gotz, due dei relatori, hanno affermato che le influenze della tecnologia sulla democrazia potrebbero essere sia positive che negative: potrebbe aumentare il controllo dei governi su di noi, ma potrebbe anche aumentare la loro trasparenza. Secondo i più realisti, la digitalizzazione porterà a una maggiore partecipazione dei cittadini se gli stati saranno capaci di creare servizi adeguati: di questo possiamo vedere due esempi opposti, Future of Germany e Iopartecipo. La prima è un’iniziativa tedesca che però non è andata a buon fine: i cittadini hanno partecipato con moltissimi commenti e consigli, di cui però lo stato non ha fatto nulla. Iopartecipo invece è un’iniziativa, simile a Future of Germany, dell’Emilia Romagna che ha raggiunto dei buoni risultati. Non dobbiamo poi dimenticare che i social network potrebbero aiutare i cittadini nel farsi sentire dal proprio governo.

La sharing economy è più un fenomeno sociale che economico. Il vero aspetto economico della digitalizzazione è l’industria 4.0, che prevedrebbe l’automatizzazione e connessione di tutti i macchinari, per permettere di raccogliere e analizzare i loro dati e quindi ottimizzare il loro funzionamento. Per rendere realtà questa Industria 4.0 servono robot che analizzino i dati in tempo reale e anche stampanti 3D per personalizzare i prodotti e quindi, appunto, ottimizzarli per ogni cliente.

Tutto questo processo di cambiamento è il processo dell’innovazione. L’innovazione però non è lineare, è collettiva e come abbiamo visto porta a cambiamenti tecnologici e socio-culturali. Un esempio della collettività dell’innovazione è la tecnica Fusbury del salto in alto: Dick Fusbury fu il primo a saltare di schiena alle Olimpiadi e vincere, ma la sua tecnica, appunto innovativa, non prese subito piede, ma ci mise del tempo, quindi l’innovazione divenne tale solo quando fu usata da tutti collettivamente. La tecnica Fusbury è anche un esempio della non linearità dell’innovazione: la tecnica non fu subito usata, ma si tornò a quella precedente. Un esempio forse più significativo per noi è la cintura di sicurezza delle auto: si iniziò a installarla sulle auto solo cent’anni dopo la sua invenzione.

Insieme a digitalizzazione si sente spesso parlare di robot e insieme a robot si sente spesso parlare di intelligenza artificiale. Al momento però una vera intelligenza artificiale, paragonabile a quella umana, non esiste ancora: esistono macchinari automatizzati, che quindi compiono solo determinate azioni, ed esistono macchinari che simulano l’intelligenza, imparano anche dalla propria esperienza ma solo in determinati campo, quindi non sono ancora intelligenti. Il raggiungimento di questo obbiettivo, ovvero il momento in cui nascerà la prima vera intelligenza artificiale, è chiamato technological singularity.

I robot ora sono in piena evoluzione ma li stiamo facendo evolvere noi. Per raggiungere questo punto l’uomo ha compiuto quattro principali rivoluzioni: dall’era della comunicazione orale è passato alla comunicazione scritta, che si è ulteriormente evoluta nella stampa. Con l’avvento poi dell’elettricità le innovazioni si sono susseguite sempre più in fretta, fino ad arrivare ad oggi, nell’era della connettività, che possiamo dire che ha avuto inizio del 1979 quando fu diffuso commercialmente il primo cellulare che poteva connettersi ad Internet. Le connessioni sono aumentate in modo esponenziale, si stima che aumenteranno di circa tredici miliardi in quattro anni.

Con questa evoluzione del linguaggio però si è evoluta anche l’intelligenza umana: i giovani di oggi che vengono definiti i digital native, che sanno usare ma non conoscono a fondo la tecnologia, e che hanno un’intelligenza cosiddetta ipertestuale, basata sulla connessione a rete delle varie informazioni, a differenza delle generazioni precedenti che hanno un’intelligenza più lineare. Queste generazioni precedenti fanno fatica a tenere il passo con i tempi. Infatti osservando questo grafico, che rappresenta l’apertura al nuovo degli italiani si nota che i giovani e le persone più istruite tendono a essere più aperti e quindi i più anziani rimangono indietro e rischiano di entrare a far parte degli esclusi digitali, coloro che non hanno accesso alla tecnologia o per motivi economici o per motivi politico-sociali o perché non sanno usare i nuovi strumenti. Nella cartina italiana vediamo che nel sud Italia quasi il 50% della popolazione non ha mai usato Internet e questo tendenza del sud a rimanere indietro si nota anche nella mappa europea: il sud e l’est Europa hanno più esclusi digitali dell’ovest e del nord.

Ritornando a parlare un attimo della connettività, bisogna almeno citare l’Internet of Things, ovvero l’insieme di tutti gli oggetti di uso quotidiano connessi a Internet che comunicando tra loro migliorano la nostra vita: ad esempio, le sveglie che suonano prima in caso di traffico oppure i vasetti delle medicine che ci avvisano quando non li prendiamo, insomma, tanti oggetti che connessi tra loro tramite Internet assumono nuove funzioni e ci facilitano la vita.

Ora siamo all’ultima parte di questa presentazione: la rivoluzione digitale in ambito medico. A parte la maggior informazione che i pazienti possono avere sulle proprie malattie e all’aiuto che i medici possono avere dai computer nel diagnosticarle (ad esempio, i computer compiono circa il 15% in meno di errori nel diagnosticare un melanoma), con i nuovi sensori digitali si può avere una monitorazione continua delle proprie condizioni di salute. I dati di questi sensori possono poi essere elaborati in tempo reale permettendo al medico di venire subito a conoscenza di valori sballati o errati.

Portando ancora più all’estremo questa idea dell’uso dei sensori, potremmo arrivare a inserirli nel cervello per mapparlo e leggere i suoi segnali, permettendo così a chi porta le protesi di controllarle con la mente. Questi chip inseriti nel cervello potrebbero anche essere usati per curare malattie mentali. Non si sa perché micro scariche al cervello curino queste malattie, però funzionano. E tornando al discorso delle protesi, inserendo dei sensori in queste, ad esempio nella pelle, si potrebbero creare protesi sensibili, con il tatto.

L’ultimo uso in ambito medico delle nuove tecnologie è il sequenziamento e l’analisi del genoma, che diventerebbero più veloci ed efficaci, permettendo di avere terapie personalizzate in base al proprio genoma.

Però, finora abbiamo parlato di molte cose belle, fantastiche, ma ci sono dei rischi in tutto ciò: la nostra privacy potrebbe non essere rispettata, i sensori e gli strumenti potrebbero essere crackati o usati per fini illeciti, le leggi potrebbero non essere efficaci nel svolgere il loro compito e chissà quanti dilemmi di origine etica potrebbero nascere. Ma ormai la rivoluzione è impossibile da fermare, quindi dobbiamo solo cercare di fare del nostro meglio.

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